di Alberto Majrani
In un precedente intervento
(vedi http://ilmulinodeltempo.blogspot.com/2011/05/laltro-ulisse.html ), abbiamo visto come tutto il racconto dell’Odissea diventi estremamente logico e realistico una volta che si cambi drasticamente la prospettiva della narrazione Omerica. Ulisse non era... Ulisse, ma colui che Ulisse stesso presenta come il migliore degli arcieri achei, cioè Filottete: un mercenario ingaggiato da Telemaco per interpretare il Re di Itaca e liberarsi di tutti i Proci. Esaminiamo ora in questa luce una delle scene più importanti dell’Odissea: quella della sfida con l’arco. Come si ricorderà, i Proci hanno tentato inutilmente di tendere l’arma, ma ora il compito spetta ad Ulisse, o a chi per esso.
E forse anche lui possiede archi simili in casa (XXI, 397-398)
Chiaramente, nessuno a Itaca aveva mai visto un arco di quel tipo: probabile quindi che Filottete se lo fosse portato dietro da casa. Magari era stato nascosto tra i cosiddetti doni che Menelao aveva fatto a Telemaco: in effetti, quando Penelope lo prende per portarlo nella sala, lo estrae dalla sua custodia, che stava a sua volta in mezzo alle arche contenenti le vesti. Quindi è plausibile che nessuno l’avesse visto mentre veniva introdotto nella reggia. Ma è possibile che un gruppo di baldi giovani in pieno vigore fosse così smidollato da non riuscire a tendere la corda di un arco? Siamo alle prese con un altro intervento divino? Qui probabilmente ci troviamo di fronte a un equivoco interpretativo di natura tecnica, che può essere risolto solo conoscendo alcuni fondamentali particolari costruttivi degli archi antichi. Chi non ha pratica della materia è portato a pensare che un arco sia soltanto un pezzo di legno ricurvo con una corda tesa alle estremità. In realtà, fin dalla remota antichità, esistevano degli archi molto più complessi, costituiti di legno e corno animale, così come descritto da Omero.
Arcere Svezia Tanum graffiti |
Ma non solo: la corda veniva tesa tra le due estremità attraverso un movimento complicato, che consisteva nel tendere con forza, aiutandosi col ginocchio per fare leva, l’arco stesso in senso INVERSO rispetto alla sua curvatura naturale nella posizione di riposo. A quel punto l’arciere infilava la corda, già preparata con due cappi alle estremità, in due scanalature presenti alle estremità dell’arco stesso. Si otteneva così un’arma dalla tensione e dalla portata notevole. Naturalmente una simile operazione poteva essere espletata correttamente solo da un individuo ben addestrato, e non da dei ragazzotti, è il caso di dirlo, “alle prime armi”. Oltretutto tale tipo di arco non poteva essere tenuto perennemente in tensione, dato che nel giro di pochi giorni avrebbe perso gran parte della sua elasticità e potenza. Se poi davvero si fosse trattato dell’arco di Ulisse, rimasto lì ad ammuffire per vent’anni, avrebbe potuto spezzarsi dopo pochi tiri: un rischio, ovviamente, che non si poteva correre; Omero lo sa bene, e infatti racconta che il suo protagonista osserva con cura l’arma, per controllare che non sia intaccata dai tarli. Certo, se davvero fosse stata tarlata, tutta la terribile “vendetta” di Ulisse sarebbe sprofondata nel ridicolo. Quindi bisogna pensare che l’arco fosse un attrezzo in piena efficienza, e fosse stato introdotto di soppiatto. Ecco dunque che anche questa scena, esaminata con la dovuta attenzione, perde il suo carattere miracoloso per diventare estremamente realistica.
E ora Filottete tende la corda dell’arco, prende la mira, scaglia la freccia e infila al primo colpo gli anelli delle dodici scuri, tra lo stupore generale. E Telemaco gli si mette accanto armato di tutto punto: è tempo di cambiare bersaglio.
arco turco del XVII sec. |
Come si vede nella foto, le tacche dove andrebbe inserita la corda si trovano ora nel lato INTERNO dell'arco in posizione di riposo, ma verrebbero a trovarsi correttamente all'esterno una volta compiuta correttamente l'operazione di ribaltamento. Questi nell’immagine sono al museo medioevale di Bologna, è roba turca del XVII secolo, ma comunque la tecnologia è rimasta immutata da millenni
Inoltre sul sito www.filottete.it trovate interviste, riassunti e una lunga videoconferenza assieme all'archeoastronomo Guido Cossard
Grazie, fin da ragazzino mi ero chiesto come mai i Proci non fossero riusciti a tendere l'arco di Ulisse. Solo oggi, a 48 anni, e dopo aver provato per la prima volta a mettere la corda su un arco ricurvo degli anni '60, ho avuto un'illuminazione su quel passaggio che Lei mi ha confermato. E' infatti solo grazie a una determinata tecnica e con grande sforzo che sono riuscito a inserire la corda in quest'arco, che funziona nel modo da Lei descritto. Per vedere a che tipo di arco mi riferisco, basta cercare "recurve bow" su Google.
RispondiEliminaQuesti sono i cosiddetti archi di tipo scitico, che erano diffusi ovunque, ma che prendono il nome dagli Sciti, una popolazione di cavalieri nomadi che scorrazzava in un vasto territorio delle steppe dalla Siberia al Mar Nero. Una leggenda, raccolta da Erodoto, narra che Ercole aveva concepito tre figli con una misteriosa donna serpente, e le aveva lasciato uno dei suoi due archi affinché lo donasse in eredità a quello dei suoi figli che fosse stato capace di tenderlo. Il vincitore si chiamava appunto Scita (o Scite) e sarebbe stato il capostipite del popolo degli Sciti. Le analogie con le vicende che abbiano raccontato finora sono evidenti. Come spesso succede, i miti tendono a ripetersi in modo simile in luoghi e tempi diversi. La procedura di incordatura è mostrata nell'anfora di Kul oba http://www.encyclopediaofukraine.com/picturedisplay.asp?linkpath=pic\S\C\Scythian%20art_Kul%20Oba%20gold%20bowl%20%28detail%29.jpg&page=pages\K\U\KulOba.htm&id=6841&pid=6079&tyt=Kul%20Oba
EliminaGrazie. Anch'Io mi chiedevo come fosse possibile.
RispondiEliminaGrazie. Anch'Io mi chiedevo come fosse possibile.
RispondiElimina