Pagine

sabato 13 giugno 2020

Funtana Coberta - Ballao



Come arrivare da Cagliari:

Percorrere la  E25/SS131 verso Sassari/Oristano/Nuoro, al Km 21 entrare in Strada Statale 128 Centrale Sarda/SS128 verso Senorbi'/Isili. A Senorbì imboccare la SP 23 verso Ballao, dopo aver superato i paesi di Arixi, San Basilio e Goni. 

Descrizione del tempio a pozzo

Il pozzo sacro si trova in agro di Ballao nella zona del Gerrei in prossimità del bivio per Goni-Escalaplano. Il paesaggio è caratterizzato dalla presenza della fascia fluviale del Flumendosa e del suo più importante affluente, il rio Stanali, che offrono la possibilità di osservare le rocce caratteristiche, la vegetazione e la fauna fluviale variegata.
Il paese di Ballao, situato nella parte estrema del Gerrei, al confine con la provincia di Nuoro, si trova in un fondovalle in prossimità di un’ampia ansa del Flumendosa, all’incrocio delle vie naturali vallive di collegamento verso Cagliari, il Sarrabus e l’Ogliastra. 

 




Il pozzo, alto 190 m, presenta una cella semisotterranea, preposta alla raccolta dell’acqua che ancora scorre grazie alla presenza di una vicina sorgente, 


 




coperta da una cupola a tholos, ottenuta con lastre disposte a filari aggettanti,  e un corridoio d’acceso coperto, preceduto da due ali larghe circa un metro,  che racchiude 12 gradini con copertura di lastroni degradanti. 





L’atrio conserva gran parte del pavimento originario in grosse lastre di calcare.
La struttura di base è costruita con blocchi di maggiori dimensioni e segna il livello di massimo pieno dell’acqua, superato il quale, questa fuoriesce all’aperto e defluisce verso il canalone naturale che scende verso Ovest. 


Storia degli scavi

Il tempio a pozzo fu scavato per la prima volta nel 1918 sotto la direzione di Antonio Taramelli, allora Soprintendente Archeologo della Sardegna.
Dopo lo scavo del Taramelli il monumento restò abbandonato fino al 1984, quando fu oggetto di un cantiere di restauro. In quell’occasione nella parte antistante il pozzo fu messo in luce un nuovo muro che si poggiava nell’ala destra dello stesso.
Nel 1994 furono effettuati lavori di valorizzazione dell’area durante i quali emersero nuove strutture a 50 m ad Est del pozzo: una capanna circolare, pavimentata, e il muro di un altro ambiente quadrangolare, separato dalla precedente da una zona lastricata. Lo scavo restituì reperti nuragici inquadrabili tra il Bronzo recente e quello finale.
Nel 1998 furono riprese le ricerche nell’area del precedente saggio e vennero in luce altri due vani di forma irregolare, affiancati, ma ciascuno con un proprio muro, separati da una canaletta la quale, in alcuni tratti, era coperta con lastrine rettangolari affiancate.
Nel 2000, grazie ad un progetto della Comunità Montana XXI di Villasalto, per i lavori socialmente utili, si è potuta ampliare l’area di scavo intorno al pozzo. Il ritrovamento di una moneta imperiale romana del III se. d.C. e di un unguentario testimoniano l’utilizzo dell’area come luogo di culto anche in età storica.
Nel 2003 furono attuati altri lavori di scavo stratigrafico finalizzati al restauro del pozzo. A Nord dell’ala destra del pozzo si è messo in luce lo strato di età storica sottostante agli strati parzialmente scavati dal Taramelli e da Ugas. Questo lastricato si appoggia al muro del pozzo e quindi è ad esso successivo. 

Interpretazione della sequenza stratigrafica condotta

In base alla sequenza stratigrafica finora condotta, si possono ricostruire le fasi di vita del tempio a pozzo partendo dallo strato più antico di frequentazione scavato, che ha restituito reperti databili tra il Bronzo medio e quello recente; esso poggiava su uno strato di argilla impermeabile, probabilmente sistemata dai nuragici durante la costruzione del pozzo, la cui fase iniziale risale quindi tra la fase finale del bronzo medio e quella iniziale del bronzo recente.



In una fase successiva furono costruiti due muri che avevano la funzione di delimitare due vani, uno più vicino all’area sacra, denominato vano α, e uno più esterno, denominato vano β. Nel primo vano fu scavata una buca con l’intento di creare un focolare, come dimostrano i resti di terra bruciata rinvenuti in uno strato di terra che, a sua volta, fu tagliato per deporre un’olla, coperta da una lastra di pietra, contenente dei bronzi da rifondere, tra i quali si evidenziano soprattutto frammenti di spade votive e di lingotti del tipo oxhide. Un altro frammento di spada votiva, trasformato in pugnaletto, fu ritrovato nella muratura dello stesso vano.
Molto probabilmente il pozzo era adornato di spade votive, le quali, in caso di rottura, venivano unite agli altri oggetti rotti e agli scarti da rifondere e, insieme ad essi, conservate sotto la protezione della divinità all’interno del recinto del tempio.
Non si sa se i successivi frequentatori del tempio fossero a conoscenza della riserva bronzea collocata sotto il pavimento e, in caso di risposta affermativa, il motivo per il quale non la utilizzarono per realizzare altri manufatti. L’unica certezza è che avevano comunque a disposizione altri ex voto di bronzo, come dimostra il ritrovamento del piede di una statuina.
In un certo momento il vano β fu obliterato da un muro e trasformato in fonderia, come dimostra un frammento di corno di bronzetto rinvenuto in  uno strato di bruciato, mentre il vano α fu pavimentato.



A circa 50 m ad est del pozzo furono edificate alcune capanne poggianti sul piano roccioso, una di esse, conservata solo per metà di forma circolare, presenta una pavimentazione ottenuta riciclando anche due macine. Accanto ad essa furono costruiti altri due vani, in uno dei quali è presente un focolare centrale e conservava ancora una fusaiola integra. L’area in questione fu pavimentata con grossi lastroni di scisto poggianti sulla roccia.
A monte del leggero declivio sul quale furono edificate le capanne fu scavata una buca sulla roccia, riempita di terra e resti ceramici nel Bronzo finale, probabilmente in funzione di riserva d’acqua, dalla quale si dipartivano alcune canalette. 



Il vano α, dopo essere stato ripulito, fu utilizzato, in età romano repubblicana, come magazzino e furono deposte delle anfore poi distrutte forse da un disastro naturale a cui si pose rimedio quasi subito con un intervento di restauro. Tra i ritrovamenti relativi a questo periodo si evidenziano alcune monete d’argento (un Quinario e un Denario) di età repubblicana (211 a.C.).
Il sito fu frequentato anche in periodo romano imperiale, durante il quale furono realizzate alcune sepolture documentate dal ritrovamento di un unguentario databile fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. e di una moneta di bronzo, un Antoniniano di Tetrico I, datato al 270-273 d.C.


Fabrizio e Giovanna



Riferimenti bibliografici:
Maria Rosaria Manunza (a cura di), Funtana Coberta, tempio nuragico a Ballao nel Gerrei
Maria Rosaria Manunza, La stratigrafia del vano α di Funtana Coberta (Ballao - CA)

martedì 2 giugno 2020

Carestie, epidemie e congiure in Sardegna nel primo ventennio del 1800


Gli eventi che si delinearono all’inizio del 1800 in Sardegna si rivelarono in seguito determinanti per quei risvolti che portarono poi alla fatidica decisione di richiedere la fusione perfetta con la terraferma che si realizzò nel 1848.

Il 3 giugno 1802 Carlo Emanuele IV abdicò a favore del fratello, il duca d’Aosta, con il nome di Vittorio Emanuele I che, in seguito ad una nuova invasione dell’Italia settentrionale da parte dei francesi dopo lo scoppio di un’altra guerra tra la stessa e l’Inghilterra (alla quale i Savoia erano alleati), nel 1806, fu costretto nuovamente a cercare rifugio in Sardegna su una nave russa seguito dalla sua corte.

La presenza della corte, come in passato, non contribuì a migliorare il costume pubblico, mentre la situazione interna si faceva sempre più preoccupante nella zona centro-orientale dell’isola, dove si giunse addirittura ad una piccola guerra tra Fonni da una parte, e Villagrande e Villanova Strisaili dall’altra per questioni di pascolo e vi furono disordini particolarmente gravi anche a Tortolì. In seguito a questi disordini furono costituite due colonne volanti, una per la parte meridionale e l’altra per quella settentrionale dell’Isola, composte da militari e da magistrati con il potere di giudicare sommariamente, l’unico limite ai loro poteri era determinato dall’impossibilità di eseguire le condanne a morte senza l’approvazione del re.


Ad aggravare la situazione contribuirono anche le terribili carestie che flagellarono l’Isola dal 1802 al 1821, la più clamorosa fu quella del 1812 alla quale si deve il famoso detto “su famini de s’annu dóxi” (la fame dell’anno dodici) ancora oggi utilizzato. Nel 1811 contribuirono ad aggravare le due annate povere precedenti la mancanza di piogge ad aprile e un caldo eccessivo a maggio, nel frattempo infieriva un’epidemia di vaiolo e la mancanza di soldi rendeva difficile l’approvvigionamento dall’estero. Per far fronte a questi problemi furono adottate varie misure di emergenza, come obbligare gli agricoltori a denunciare la quantità di grano raccolta in eccesso rispetto ai bisogni delle famiglie ed ulteriori prelevamenti di fondi da varie amministrazioni particolari, come i Monti di soccorso e di riscatto. Si ricorse anche alla requisizione nelle campagne del grano necessario all’approvvigionamento delle città, dove veniva venduto a prezzo politico. Era perciò vietata l’esportazione del prodotto dalle città all’interno dell’isola, dove alla fine dell’anno il prezzo salì in maniera esorbitante. Chi non aveva soldi doveva dare per uno starello di grano (50 lt circa) uno starello di terra coltivabile (4000 m2). La conseguenza più immediata fu ovviamente l’aumento della delinquenza e l’emigrazione a Cagliari dei poveri che nei paesi non riuscivano a sopravvivere. Fu allestito un centro di raccolta per i profughi nel convento di San Lucifero, ma il grano a disposizione era insufficiente a garantire una regolare erogazione di cibo fino al raccolto successivo. Una commissione composta dai tre grossi commercianti Gaetano Pollini, Giacomo Ignazio Federici e Salatore Rossi fu incaricata di predisporre l’importazione di grano, ma la mancanza di soldi non permetteva loro di compiere questa operazione. Solo quando Vittorio Emanuele I promise di far fronte alla spesa impegnando il sussidio che per il mantenimento della famiglia reale gli era stato concesso a carico della sua cassa privata dal re d’Inghilterra, sussidio che gli veniva pagato a Malta, il Rossi poté raggiungere l’isola e acquistare 730 salme di grano e 200 barili di farina americana.

Malgrado le rigorose misure paventate ai produttori, il prezzo del grano si mantenne molto alto anche dopo il modesto raccolto del 1812 e le conseguenze furono gravissime, infatti crebbe il debito pubblico dello stato, entrarono in crisi le amministrazioni frumentarie dei municipi e aumentò l’indigenza degli agricoltori a vantaggio dei grandi proprietari che, essendo perlopiù preti e notabili, erano esentati dal pagamento dei tributi dei quali si avvantaggiavano i monti frumentari che si assottigliarono sempre di più provocando la decadenza dell’agricoltura stessa.


Il 1800 inaugurò anche una stagione di insurrezioni e congiure che provocarono un inasprimento delle misure restrittive da parte dei regnanti. Le prime avvisaglie furono le insurrezioni antifeudali del 1800 scoppiate a Thiesi e Santu Lussurgiu, seguite, nel 1802, dal tentato moto repubblicano da parte del Cilocco e Sanna Corda, rientrati in Sardegna dalla Corsica dove erano emigrati per radunare gli antichi seguaci dell’Angioj.

Nell’ottobre del 1812 nel capoluogo sardo fu organizzata una congiura borghese, nota come la “Congiura di Palabanda” dal nome della zona stampacina da dove partì (tra l’attuale orto botanico e il convento di Sant’Ignazio). Le origini della congiura si fanno risalire alle tendenze progressiste maturate durante i moti del 1794, allora il partito progressista lottava unito contro il nemico comune, ma ben presto si divise principalmente in due grandi aree, una decise di abbracciare ideali più moderati se non addirittura reazionari, più per convenienza che per reale senso di redenzione, mentre l’altra cercò di portare avanti quegli ideali che erano stati alla base del cosiddetto vespro sardo cercando collegamenti col movimento antifeudale. Come abbiamo visto, i vari congiurati subirono feroci repressioni e chi riuscì a sfuggire alla giustizia dovette riparare o in Corsica o in Francia in attesa che i tempi fossero maturi per una nuova era rivoluzionaria. In ogni caso vi era un viscerale desiderio di redenzione da quel governo esoso e inetto e le ambizioni democratiche non erano state debellate, ma aspettavano solo il momento propizio per potersi manifestare.  














Abbiamo avuto modo di osservare che fin dall’inizio del 1800 vi furono vari tentativi insurrezionali e questo dimostra il generale stato di insofferenza diffuso un po’ in tutta l’Isola e i sospetti di congiure erano sempre più reali. Nel 1812 la popolazione era esasperata dalla carestia che ormai assumeva i connotati di una piaga e i tempi potevano sembrare maturi per un riscatto che mettesse d’accordo un po’ tutti.

Sicuramente i congiurati di Palabanda pensarono questo quando decisero di attuare il loro piano progettato nell’abitazione dell’avvocato Salvatore Cadeddu, segretario dell’Università e tesoriere del Comune di Cagliari, uno dei noti “patrioti novatori” del periodo rivoluzionario, dove si riuniva un eterogeneo gruppo composto da studenti, popolani e piccoli artigiani. Non è chiaro se lo scopo della congiura fosse quello di cacciare nuovamente i piemontesi o porre sul trono Carlo Felice al posto di Vittorio Emanuele I, gli storici in tal senso non hanno ancora avuto riscontri che convalidassero l’una o l’altra teoria; in ogni caso il piano prevedeva che fra il 30 e il 31 ottobre i congiurati di Stampace varcassero la porta di S. Agostino, lasciata aperta da amici complici, per unirsi ai congiurati della Marina con i quali, grazie alla complicità di due sergenti e di altri militari, si sarebbero impadroniti delle armi della Real Marina, successivamente, dopo essersi uniti ai congiurati del quartiere di Villanova, avrebbero assediato il quartiere di Castello, dove risiedevano le autorità.




Nonostante il piano fosse ben combinato non fu possibile portarlo avanti perché uno dei congiurati, Girolamo Boi, raccomandò il suo amico Proto Meloni, sostituto dell’avvocato fiscale regio, di mettersi in salvo finché fosse in tempo. Quest’ultimo invece parlò della faccenda al suo capo, Raimondo Garau, il quale riferì la notizia al re che, a sua volta avvisò il comandante della piazza Giacomo Pes di Villamarina. Il comandante, nonostante non avesse ravvisato il pericolo di una congiura, intensificò la vigilanza, la quale sorprese di notte uno dei congiurati, Giacomo Floris, incaricato di collegare nella piazza del Carmine i congiurati di Stampace e quelli di Villanova, ma lo lasciò libero e gli offrì la possibilità di dare l’allarme ai complici.  Il Floris  ritornò nella piazza mandando nel panico tutti quanti e, dopo aver scartato la possibilità di portare avanti la congiura uccidendo il Villamarina sguarnito di speciali precauzioni all’alba del giorno seguente, decisero di abbandonare l’impresa.

Il governo si rese conto in ritardo della congiura e, per soffocare qualsiasi tentativo simile, promise l’impunità e premi in denaro a quanti avessero consentito la cattura dei capi; i congiurati furono così perseguitati e lo stesso capo della congiura fu giustiziato.

La congiura di Palabanda può essere considerata l’ultimo atto dei moti di fine Settecento che, purtroppo ebbero come conseguenza una recrudescenza delle azioni repressive da parte del governo piemontese.

 

Fabrizio e Giovanna

 

Riferimenti bibliografici:

Leopoldo Ortu, Storia della Sardegna dal Medioevo all’Età contemporanea

Lorenzo del Piano, Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento