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martedì 2 giugno 2020
Carestie, epidemie e congiure in Sardegna nel primo ventennio del 1800
Gli eventi che si delinearono all’inizio del 1800 in Sardegna si rivelarono in seguito determinanti per quei risvolti che portarono poi alla fatidica decisione di richiedere la fusione perfetta con la terraferma che si realizzò nel 1848.
Il 3 giugno 1802 Carlo Emanuele IV abdicò a favore del fratello, il duca d’Aosta, con il nome di Vittorio Emanuele I che, in seguito ad una nuova invasione dell’Italia settentrionale da parte dei francesi dopo lo scoppio di un’altra guerra tra la stessa e l’Inghilterra (alla quale i Savoia erano alleati), nel 1806, fu costretto nuovamente a cercare rifugio in Sardegna su una nave russa seguito dalla sua corte.
La
presenza della corte, come in passato, non contribuì a migliorare il costume
pubblico, mentre la situazione interna si faceva sempre più preoccupante nella
zona centro-orientale dell’isola, dove si giunse addirittura ad una piccola
guerra tra Fonni da una parte, e Villagrande e Villanova Strisaili dall’altra
per questioni di pascolo e vi furono disordini particolarmente gravi anche a
Tortolì. In seguito a questi disordini furono costituite due colonne volanti,
una per la parte meridionale e l’altra per quella settentrionale dell’Isola,
composte da militari e da magistrati con il potere di giudicare sommariamente, l’unico
limite ai loro poteri era determinato dall’impossibilità di eseguire le
condanne a morte senza l’approvazione del re.
Ad aggravare la situazione contribuirono anche le terribili carestie che flagellarono l’Isola dal 1802 al 1821, la più clamorosa fu quella del 1812 alla quale si deve il famoso detto “su famini de s’annu dóxi” (la fame dell’anno dodici) ancora oggi utilizzato. Nel 1811 contribuirono ad aggravare le due annate povere precedenti la mancanza di piogge ad aprile e un caldo eccessivo a maggio, nel frattempo infieriva un’epidemia di vaiolo e la mancanza di soldi rendeva difficile l’approvvigionamento dall’estero. Per far fronte a questi problemi furono adottate varie misure di emergenza, come obbligare gli agricoltori a denunciare la quantità di grano raccolta in eccesso rispetto ai bisogni delle famiglie ed ulteriori prelevamenti di fondi da varie amministrazioni particolari, come i Monti di soccorso e di riscatto. Si ricorse anche alla requisizione nelle campagne del grano necessario all’approvvigionamento delle città, dove veniva venduto a prezzo politico. Era perciò vietata l’esportazione del prodotto dalle città all’interno dell’isola, dove alla fine dell’anno il prezzo salì in maniera esorbitante. Chi non aveva soldi doveva dare per uno starello di grano (50 lt circa) uno starello di terra coltivabile (4000 m2). La conseguenza più immediata fu ovviamente l’aumento della delinquenza e l’emigrazione a Cagliari dei poveri che nei paesi non riuscivano a sopravvivere. Fu allestito un centro di raccolta per i profughi nel convento di San Lucifero, ma il grano a disposizione era insufficiente a garantire una regolare erogazione di cibo fino al raccolto successivo. Una commissione composta dai tre grossi commercianti Gaetano Pollini, Giacomo Ignazio Federici e Salatore Rossi fu incaricata di predisporre l’importazione di grano, ma la mancanza di soldi non permetteva loro di compiere questa operazione. Solo quando Vittorio Emanuele I promise di far fronte alla spesa impegnando il sussidio che per il mantenimento della famiglia reale gli era stato concesso a carico della sua cassa privata dal re d’Inghilterra, sussidio che gli veniva pagato a Malta, il Rossi poté raggiungere l’isola e acquistare 730 salme di grano e 200 barili di farina americana.
Malgrado le rigorose misure paventate ai produttori, il prezzo del grano si mantenne molto alto anche dopo il modesto raccolto del 1812 e le conseguenze furono gravissime, infatti crebbe il debito pubblico dello stato, entrarono in crisi le amministrazioni frumentarie dei municipi e aumentò l’indigenza degli agricoltori a vantaggio dei grandi proprietari che, essendo perlopiù preti e notabili, erano esentati dal pagamento dei tributi dei quali si avvantaggiavano i monti frumentari che si assottigliarono sempre di più provocando la decadenza dell’agricoltura stessa.
Il 1800 inaugurò anche una stagione di insurrezioni e congiure che provocarono un inasprimento delle misure restrittive da parte dei regnanti. Le prime avvisaglie furono le insurrezioni antifeudali del 1800 scoppiate a Thiesi e Santu Lussurgiu, seguite, nel 1802, dal tentato moto repubblicano da parte del Cilocco e Sanna Corda, rientrati in Sardegna dalla Corsica dove erano emigrati per radunare gli antichi seguaci dell’Angioj.
Nell’ottobre del 1812 nel capoluogo sardo fu organizzata una congiura borghese, nota come la “Congiura di Palabanda” dal nome della zona stampacina da dove partì (tra l’attuale orto botanico e il convento di Sant’Ignazio). Le origini della congiura si fanno risalire alle tendenze progressiste maturate durante i moti del 1794, allora il partito progressista lottava unito contro il nemico comune, ma ben presto si divise principalmente in due grandi aree, una decise di abbracciare ideali più moderati se non addirittura reazionari, più per convenienza che per reale senso di redenzione, mentre l’altra cercò di portare avanti quegli ideali che erano stati alla base del cosiddetto vespro sardo cercando collegamenti col movimento antifeudale. Come abbiamo visto, i vari congiurati subirono feroci repressioni e chi riuscì a sfuggire alla giustizia dovette riparare o in Corsica o in Francia in attesa che i tempi fossero maturi per una nuova era rivoluzionaria. In ogni caso vi era un viscerale desiderio di redenzione da quel governo esoso e inetto e le ambizioni democratiche non erano state debellate, ma aspettavano solo il momento propizio per potersi manifestare.
Abbiamo avuto modo di osservare che fin dall’inizio del 1800 vi furono vari tentativi insurrezionali e questo dimostra il generale stato di insofferenza diffuso un po’ in tutta l’Isola e i sospetti di congiure erano sempre più reali. Nel 1812 la popolazione era esasperata dalla carestia che ormai assumeva i connotati di una piaga e i tempi potevano sembrare maturi per un riscatto che mettesse d’accordo un po’ tutti.
Sicuramente i congiurati di Palabanda pensarono questo quando decisero di attuare il loro piano progettato nell’abitazione dell’avvocato Salvatore Cadeddu, segretario dell’Università e tesoriere del Comune di Cagliari, uno dei noti “patrioti novatori” del periodo rivoluzionario, dove si riuniva un eterogeneo gruppo composto da studenti, popolani e piccoli artigiani. Non è chiaro se lo scopo della congiura fosse quello di cacciare nuovamente i piemontesi o porre sul trono Carlo Felice al posto di Vittorio Emanuele I, gli storici in tal senso non hanno ancora avuto riscontri che convalidassero l’una o l’altra teoria; in ogni caso il piano prevedeva che fra il 30 e il 31 ottobre i congiurati di Stampace varcassero la porta di S. Agostino, lasciata aperta da amici complici, per unirsi ai congiurati della Marina con i quali, grazie alla complicità di due sergenti e di altri militari, si sarebbero impadroniti delle armi della Real Marina, successivamente, dopo essersi uniti ai congiurati del quartiere di Villanova, avrebbero assediato il quartiere di Castello, dove risiedevano le autorità.
Nonostante il piano fosse ben combinato non fu possibile portarlo avanti perché uno dei congiurati, Girolamo Boi, raccomandò il suo amico Proto Meloni, sostituto dell’avvocato fiscale regio, di mettersi in salvo finché fosse in tempo. Quest’ultimo invece parlò della faccenda al suo capo, Raimondo Garau, il quale riferì la notizia al re che, a sua volta avvisò il comandante della piazza Giacomo Pes di Villamarina. Il comandante, nonostante non avesse ravvisato il pericolo di una congiura, intensificò la vigilanza, la quale sorprese di notte uno dei congiurati, Giacomo Floris, incaricato di collegare nella piazza del Carmine i congiurati di Stampace e quelli di Villanova, ma lo lasciò libero e gli offrì la possibilità di dare l’allarme ai complici. Il Floris ritornò nella piazza mandando nel panico tutti quanti e, dopo aver scartato la possibilità di portare avanti la congiura uccidendo il Villamarina sguarnito di speciali precauzioni all’alba del giorno seguente, decisero di abbandonare l’impresa.
Il governo si rese conto in ritardo della congiura e, per soffocare qualsiasi tentativo simile, promise l’impunità e premi in denaro a quanti avessero consentito la cattura dei capi; i congiurati furono così perseguitati e lo stesso capo della congiura fu giustiziato.
La congiura di Palabanda può essere considerata l’ultimo atto dei moti di fine Settecento che, purtroppo ebbero come conseguenza una recrudescenza delle azioni repressive da parte del governo piemontese.
Fabrizio e Giovanna
Riferimenti bibliografici:
Leopoldo Ortu, Storia della Sardegna dal Medioevo all’Età contemporanea
Lorenzo del Piano, Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento
lunedì 18 maggio 2020
Abadia di Ognissanti in Brasile
Questo è il parere autorevole della prof.essa Patrizia Licini:
-Non è vero che la Carta Cantino è del 1502. Non c'è alcuna data, né nome di autore. Al contrario, Vespucci dichiara in Cosmographiae introductio ('Navigatio Quarta') pubblicata il 25 aprile 1507 a Saint-Dié, che, dopo la defezione del loro capitano generale di cui mai fa il nome il 18 agosto 1503 davanti all'isola disabitata a quasi 3° lat. Sud dove la nave capitana, la sua, era naufragata fra gli scogli, lui e i Portoghesi superstiti con lui deliberarono di riprendere la navigazione verso il Polo Antartico e dopo 17 giorni raggiunsero un porto al quale diedero il nome Abbazia di Tutti i Santi; dunque era il 5 settembre 1503 nel secondo viaggio del 1503-1504 per Emanuele il Re di Portogallo. E, infatti, troviamo la iscrizione «Abaia de todos sanctos» anche sulla Carta Cantino e ... proprio dove una mano anonima incollò la pezza di pergamena sopra il disegno originale. Dunque la Carta Cantino registra anche il toponimo del viaggio 1503-1504 e non può essere databile entro la fine del 1502. –
(Si parla di Abbazia; luogo di culto.)
Siamo a Roma nel 1507. Johann Ruysch è un altro autore che riporta Abatia.
Ho evidenziato la scritta Mundus Novus riportata dal Ruysch e quella riportata nella carta di Pesaro. Io seguito a vedere la sigla AV di Amerigo Vespucci.
Cercherò di spiegare, il resto, a modo mio.
La prima stampa della Lettera al Soderini, in italiano, fu fatta a Firenze nel 1505/6. Andò persa. Noi ne conosciamo, solo, la versione latina data alle stampe dal Waldseemuller a Saint-Dié nel 1507.
Ripeto: si parla di un luogo di culto =
abbadia o abadia) s. f. [lat. tardo abbatīa]. - (eccles.) [comunità monastica e anche il complesso degli edifici che la accolgono] ≈ abbazia, chiostro, convento, monastero.
Il IV viaggio di Vespucci terminò il 18 giugno 1504 secondo la tipografia di Saint Diè.
Vesconte Maggiolo, nel planisfero di Fano, quello fatto a Genova nel 1 5 4, addì 8 giugno, riporta abaida de tuty li santi (abaida per abadia).
KUNSTMANN II: A baia de tutti santi mentre CAVERI riporta Baie di tuti li santi.
La Badia varrebbe per le suore con la Badessa. L’Abadia varrebbe per frati dove dirige un Abate e, a Firenze, ai tempi dei Vespucci, c’erano i Francescani. Quindi la Abadia di Ognissanti dovrebbe essere il termine giusto originario. Evito di parlare della chiesa di Ognissanti e dei legami con la famiglia Vespucci. Questa volta vale la pena di leggere quanto troviamo in rete. La carta Cantino riporta Abaia de todos sanctos. La grafia nella zona del rattoppo è completamente diversa dal resto della carta. Amerigo, che se l’è vista brutta in quell’occasione, la dedicò alla Abadia di Ognissanti.
Vallo a tradurre in
latino prima e in spagnolo dopo. E vai a spiegarlo ai Brasiliani oggi e al Santos di Pelè.
Ultimamente ho cercato, nei dispacci estensi, con poca fortuna, i testi completi riguardanti Alberto Cantino. Lo troviamo a Orano il 7giugno del 1501, poi è a Cadice il 19 luglio dove da notizie della flotta di Cabral. Sicuramente erano passate le due navi segnalate da Amerigo, nella Lettera da Capo Verde, riportanti la scoperta dell’Isola della Vera Croce. La scoperta di quell’isola, però, era da un anno nella Carta di Juan de la Cosa che è del 1500.
In mancanza del testo completo delle lettere mi debbo fermare.
Una cosa è sicura: la Carta Cantino è un dono. La carta che ha lasciato a Genova ha un giro di soldi.
Majollo (che era a Genova) ne da notizia prima della stampa di Firenze. Deve averlo saputo subito.
Abaida detuty liSanty (credo che volesse scrivere Abadia)
Questo è lo schema di Juan de La Cosa (1500) Ho evidenziato
l’isola scoperta per il Portogallo che, poi, diverrà l’isola della Santa Croce:
il Brasile. Troppo precoce la segnalazione.
Però la toponomastica dei grandi navigatori è finita sulle coste dell’India… leggermente fuori scala.
Nicolò Caveri, per raffigurare l’Isola della Vera Croce, poi Santa Croce, ha utilizzato 3 pezzi dell’isola della Croce del Sud: l’Australia.
Resta da capire il perché del rattoppo sulla Cantino e della
toponomastica aggiunta.
Fatemi spiegare il mio punto di vista sulla questione delle
terre asiatiche.
Ho preso un planisfero moderno e ho inserito la zona caraibica di Cantino.
Le due linee bianche sono la Raya e il suo antemeridiano noto come Linea delle Spezie. Osservate le isole del Giappone. Okkaidò è stata spostata per formare il Cubitus (gomito) di Cuba. Kiùshù è sulla Raya. Se cercate qualcosa, in America, che posso aver ispirato i vecchi cartografi non la trovate. Sono spostate di 180° esatti.
Osservate la grandezza di Giovanna (Isabella) e Spagnola della Cantino e dell’Atlante Castiglioni;
le ho portate alla stessa scala. Se un grande Ammiraglio scrisse .. (le sue lettere rarissime a STAMPA sono sotto gli occhi di tutti)….
….l'isola Giovanna, secondo il quale cammino posso dire che questa isola è maggiore d'Inghilterra e Scozia unite, perchè oltre queste centosette leghe mi resta dalla parte di ponente due Provincie alle quali io non pervenni. L'una di queste chiaman Avan, ove nasce la gente con la coda….. (1 lega = 4 miglia)
…. L'altra isola Spagnuola, misura in circuito più di tutta la Spagna…. ( e si trova a XXVI° sopra l’Equatore)
Chi ha scritto quelle lettere (per Colombo) aveva davanti agli occhi una carta simile alla Cantino. Quelle carte già erano già state assemblate. Se Colombo avesse fatto una sola misura…
C’è un altro passaggio nelle lettere:
Quando io - venendo dalla Spagna alle Indie - giunsi a
Trovai pure il mare completamente pieno di un'erba fatta di rametti di pino e carica di frutti simili a quelli del lentisco. L'erba era così densa che nel mio primo viaggio temetti che si trattasse di una secca e che le navi vi si sarebbero arenate. E il fatto sorprendente è che fino al momento di arrivare a quella linea della stessa erba non se ne trova affatto….
La storia del Mar dei Sargassi non mi ha mai convinto.
Ho ripreso una mia vecchia carta. C’è il meridiano di Roma e dove avevo misurato 90° a est e 90° a ovest che è, poi, quello che riportano le carte. Questa volta ho misurato 45° a est e 45° a ovest di Roma. (Ho rivisto tutti i vecchi portolani). Adesso sono convinto che quell’erba non era altro che un vecchio disegno della cornice di qualche antica carta. Nessun navigatore ha trovato, più, quell’erba.
(Augusto mandò Gaio Cestio Gallo nel Mar Rosso, verso Aden, con al seguito un certo Strabone. Siamo a 45° a est di Roma.)
Affermare che Cantino fu spedito a Lisbona per carpire lo sviluppo dell’impero portoghese, che era solo sulla carta, mi sembra poco veritiero.
Rolando Berretta