Nel precedente post UN ILLUSTRE CAGLIARITANO DI NOME SIGISMONDO ARQUER - abbiamo
parlato dell’opera più famosa di Sigismondo commissionatagli da Sebastian Münster,
abbiamo anche detto che nonostante i contatti con gli ambienti luterani rimase
profondamente cattolico ma che ciò non bastò a scagionarlo dall'accusa di
eresia che gli costò la vita.
Come abbiamo già visto la severità del suo
operato gli valse l'ostilità della nobiltà sarda, in particolare degli
Aymerich, che, nella persona di don Salvatore, fecero tendenziosamente
circolare il compendio dove l’Arquer giudicava molto duramente il clero sardo
affermando: “Sacerdotes indoctissimi
sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur qui latinam
intelligat linguam. Habent suas concubinas maioremque dant operam procreandis
filiis quam legendis libris” (I sacerdoti sono
ignorantissimi, al punto che tra questi, come anche tra i monaci, è raro
trovarne uno che comprenda la lingua latina. Hanno le loro concubine e mettono
maggiore impegno nel fare figli che nel leggere libri)[1].
L’avversione dell’Arquer nei confronti
dell’ignoranza e della superstizione dei ministri del culto si può ritrovare
anche nel processo contro il commerciante Malla da lui difeso nel 1552.
Questo processo fu una delle conseguenze dei
conflitti tra l’inquisitore sardo Andrea Sanna e il viceré Antonio Cardona, che
traevano origine dalla fondazione dell'inquisizione spagnola nell'Isola: il
potere regio non era favorevole al fatto che i suoi ministri fossero esenti
dalla giurisdizione episcopale e da quella civile e che i familiari, oltre a
superare la quota prevista, sfruttassero il loro incarico per compiere illegalità
restando impuniti. Al tempo dell’Arquer i due poteri coinvolsero nella diatriba
i loro funzionari e i personaggi appartenenti alla nobiltà e al ceto mercantile
che si sentivano da essi rappresentati; in questo contesto il commerciante
Malla, residente nel quartiere della Marina, fu coinvolto nel 1540 dall’alguazile e commissario generale per la Sardegna Truisco
Casula, accusato dall’inquisizione sarda di possedere un demonio dentro
un'ampolla e di averlo adorato. Entrambi subirono l’autodafé nel 1540 che si
concluse con la confisca dei beni e la punizione del carcere perpetuo con
l'obbligo di portare il sambenito.
L’obiettivo
dell’inquisizione sarda era quello di screditare il potere regio e a tal fine
riuscirono a corrompere il Casula sistemandolo insieme ad una donna di Sinnai,
da lui stesso accusata, nelle carceri inquisitoriali, situate nella casa
cagliaritana dell'inquisitore Sanna, dove godeva di assoluta libertà entrando e
uscendo a suo piacimento. I due complici denunciarono più di cento persone, tra
le quali spiccava la viceregina che fu accusata di aver preso un demonio chiuso
dentro un corno di bue.
Nel frattempo il Malla, dopo aver trascorso un
certo periodo di prigionia nell’ospedale di S. Antonio, fu sistemato a casa del
fratello per far fronte al problema finanziario del
sovraffollamento delle carceri inquisitoriali e, nel 1546, gli fu concessa la
libertà di circolare per l'isola, senza però tentare di uscire per non
incorrere nell'accusa di relapso. Il commerciante ritenendosi innocente decise di appellarsi direttamente al re
avvalendosi dell’aiuto di Giovanni Antonio Arquer e della protezione del viceré
Cardona, ma mentre cercava di raggiungere Madrid fu scoperto e imprigionato
nelle carceri del S. Ufficio.
Il coinvolgimento del
viceré diede alla vicenda una grandissima risonanza e il Malla riuscì a far
giungere le proprie richieste all'inquisitore generale Fernando Valdés che, nel
1551, ordinò all'inquisitore Sanna di concedergli la facoltà di recarsi a
Madrid.
A questo punto entrò in
scena il giovane Sigismondo Arquer che difese il suo assistito confutando tutti
i capi d’imputazione.
In primo luogo mise in
evidenza la corruzione dell’inquisizione sarda nel decennio 1540-50 che, per
andare contro il potere regio non esitò a permettere che nella stessa cella
coabitassero due persone di sesso opposto che tramarono affinché la stessa
viceregina fosse coinvolta in quel giro di false accuse. Aggiunse inoltre che
l’inquisitore Sanna era direttamente responsabile nonostante avesse affermato
di non essere a conoscenza di tali trame, egli infatti sosteneva che fosse
deplorevole da parte del diretto responsabile dell’inquisizione sarda non
occuparsi degli eventi interni all’organismo che rappresentava.
Successivamente si
occupò di smentire le varie teorie circa le modalità di contatto con il demonio
che, a suo parere, furono strumentalizzate dai ministri del tribunale sardo con
l’obiettivo di spartirsi i soldi del
Malla.
L’avvocato cagliaritano riteneva che la
confessione resa dal suo assistito fosse inverosimile perché estorta sotto
tortura, infatti la paura di incorrere nell’ira degli inquisitori induceva il
condannato a confermare le loro accuse confessando ciò che si aspettavano di
sentire.
I capi di imputazione
si rifacevano ai vari trattati di demonologia tra questi si ricorda il trattato
dell’XI sec. scritto dal bizantino Michele Psello, secondo la quale i demoni si
dividevano in sei gruppi e all’interno del terzo erano presenti quelli chiamati
terrestri che potevano risiedere dentro recipienti di vetro o cristallo.
L’Arquer non credeva in tali teorie e le confutò
utilizzando le sacre scritture e i padri della chiesa:
Contrariamente all'idea
comune aveva una concezione spirituale del diavolo, così come fu teorizzata nel
V secolo dallo Pseudo-Dionigi e ripresa dalla dottrina cattolica con San
Tommaso d'Aquino.
Rifacendosi all’apostolo
Paolo affermò che il diavolo per ottenere l’onore divino si presentasse
trasfigurato sotto forma di angelo luminoso e non in forma infima e vile.
Avvalendosi invece di
San Pietro Apostolo riteneva che il diavolo vagasse come un animale feroce in
cerca di anime da possedere, riteneva dunque contrario alla dottrina credere
che restasse chiuso dentro un’ampolla in attesa di essere utilizzato.
Secondo gli inquisitori
il Malla confessò di avere adorato il diavolo in maniera consapevole, ma
nessuno poteva adorare consapevolmente il male; era inoltre impossibile credere
che il Malla, già sotto il dominio del diavolo, avesse rifiutato di donargli l’anima.
Per rendere più incisivo il suo punto di vista l’Arquer si avvalse anche dell'Apologetico
di Tertulliano, dove, nei capitoli 22, 23 e 27 dedicati a chiarire la natura
degli antichi dei pagani identificati con i demoni, si asserisce che solo presentandosi
come dei, riuscivano a farsi adorare.
L'Arquer fece un grosso
errore giudicando duramente l'operato dell'inquisizione sarda perché in tal
modo accusava implicitamente anche all’inquisizione spagnola che aveva
precedentemente dato credito a quelle affermazioni; ovviamente questo atteggiamento
non poteva sortire la revoca della condanna del Malla perché la Suprema non
poteva smentire la sua linea di condotta andando contro sé stessa.
Le richieste del Malla
e del suo difensore non furono dunque accettate e il risultato ottenuto fu
identico all’esito del processo precedente. Il Malla continuò a dichiarare la
sua innocenza e nel 1556, dopo aver rinnovato l'appello alla Suprema, fu difeso
da un altro avvocato e ottenne l’assoluzione da tutte le accuse.
Di fatto si
condannava l'operato del tribunale sardo nel decennio 1540-1550 dando implicitamente ragione alle tesi sostenute dall'Arquer nel processo celebrato nel 1552.
Fabrizio e Giovanna
Notizie tratte da:
Sigismondo Arquer. Un
innocente sul rogo dell’Inquisizione, Salvatore Loi
[1] Sigismondo
Arquer. Sardiniae brevis historia et descriptio, cap. VII, a cura di Maria
Teresa Laneri, saggio introduttivo di Raimondo Turtas
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