Pagine

lunedì 27 luglio 2020

Ex cattedrale di Santa Maria di Tratalias - SU



L’ex cattedrale di Santa Maria è l'unico edificio che resta del borgo medievale semiabbandonato per lo sviluppo dell’abitato moderno poco distante, la sua struttura campeggia tra i resti delle basse abitazioni che oggi rivivono grazie alla loro conversione in piccoli centri adibiti ad uso turistico e didattico.



Dagli inizi del XIII secolo (entro il 1218), in seguito allo spopolamento del sito costiero di Sant’Antioco, Tratalias subentrò ad esso in qualità di sede della cattedra vescovile di Sulcis fino al 1503, quando una bolla di Giulio II designò Iglesias quale sede diocesana.

La villa di Tratalias,  dopo la fine del giudicato di Calari nel 1258 che determinò l’occupazione pisana dei suoi territori, passò alla famiglia dei signori della Gherardesca, la cui proprietà fu confermata nel 1324 dai sovrani iberici che subentrarono agli stessi pisani.



Santa Maria di Tratalias rappresenta uno dei monumenti religiosi meglio conservati e più importanti del romanico sardo.

L’epigrafe di fondazione del 1213 si trova ancora in situ all’interno dell’abside, mentre quella, ormai scomparsa, relativa alla fine dei lavori (1282), era collocata nel pulpito che era addossato al terzo pilastro sinistro.
La chiesa romanica, con coperture lignee e abside orientata a N/E, si presenta a tre navate divise da arcate a tutto sesto impostate su pilastri quadrangolari sagomati agli spigoli.  

                      


Il monumento in pietra sedimentaria e vulcanica fu realizzato da maestranze locali già orientate verso modi gotici.
La facciata si articola orizzontalmente in due ordini divisi da una fascia vuota che sovrasta una cornice su archetti.

                                   


Il primo ordine è diviso in tre specchi, i due laterali, pur presentando due rombi scolpiti in negativo, sono lisci, mentre in quello centrale è presente un portale i cui stipiti reggono un architrave e un arco di scarico a tutto sesto terminante con un sopracciglio decorato con motivi vegetali.



Il secondo ordine presenta un unico specchio archeggiato dove si apre un rosone a sagoma lobata e ghiera di foglie dalla cima ricurva.



Al di sopra dell’ultimo ordine è presente una seconda cornice su cui si eleva il timpano dotato di scala esterna che conclude il prospetto.



Sia nella facciata che nei prospetti laterali e quello absidale si dispongono archetti su peducci con soggetti vegetali. Nella parte superiore del lato nord, oltre alle semplici finestre, si può osservare un rombo gradinato.



I portali laterali, pur riprendendo lo schema di quello della facciata, differiscono tra loro per alcuni particolari, quello del lato sud è accessibile tramite una scalinata e presenta nella cornice dell'archivolto decorazioni a palmette e caulicoli, mentre quello del lato nord presenta l’arco di scarico a sesto acuto e due leoni in rilievo affrontati nell’architrave.





Il prospetto absidale diviso in tre parti da lesene piatte è coronato da archetti pensili su peducci gradinati.



L’interno a pianta rettangolare è diviso in tre navate da arcate a tutto sesto impostate su pilastri dagli spigoli smussati.
L’aula è illuminata dal rosone della facciata, dalla bifora aperta sopra l’abside e dalle monofore laterali.

Sulla controfacciata è presente un sistema di scale che consente di accedere al tetto grazie alla rampa posta sul timpano esterno della facciata.

Nella navata di sinistra è possibile ammirare un trittico cinquecentesco dove è raffigurata la Madonna in trono fra san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista.

Nel 1503, quando la sede vescovile fu trasferita a Iglesias, il simulacro della Vergine fu trasportato nella nuova destinazione. 
Ogni anno, nella settimana compresa tra il giovedì precedente l’Ascensione e il martedì successivo,  i cittadini di Tratalias organizzano una grande festa in onore della santa. 
Il giovedì precedente l’ascensione i fedeli riportano il simulacro a Tratalias e attirano gli altri devoti accendendo un fuoco, dopo i festeggiamenti, il martedì successivo, la statua riparte alla volta di Iglesias dove arriva dopo aver fatto tappa di un giorno a Gonnesa.

Fabrizio e Giovanna



sabato 13 giugno 2020

Funtana Coberta - Ballao



Come arrivare da Cagliari:

Percorrere la  E25/SS131 verso Sassari/Oristano/Nuoro, al Km 21 entrare in Strada Statale 128 Centrale Sarda/SS128 verso Senorbi'/Isili. A Senorbì imboccare la SP 23 verso Ballao, dopo aver superato i paesi di Arixi, San Basilio e Goni. 

Descrizione del tempio a pozzo

Il pozzo sacro si trova in agro di Ballao nella zona del Gerrei in prossimità del bivio per Goni-Escalaplano. Il paesaggio è caratterizzato dalla presenza della fascia fluviale del Flumendosa e del suo più importante affluente, il rio Stanali, che offrono la possibilità di osservare le rocce caratteristiche, la vegetazione e la fauna fluviale variegata.
Il paese di Ballao, situato nella parte estrema del Gerrei, al confine con la provincia di Nuoro, si trova in un fondovalle in prossimità di un’ampia ansa del Flumendosa, all’incrocio delle vie naturali vallive di collegamento verso Cagliari, il Sarrabus e l’Ogliastra. 

 




Il pozzo, alto 190 m, presenta una cella semisotterranea, preposta alla raccolta dell’acqua che ancora scorre grazie alla presenza di una vicina sorgente, 


 




coperta da una cupola a tholos, ottenuta con lastre disposte a filari aggettanti,  e un corridoio d’acceso coperto, preceduto da due ali larghe circa un metro,  che racchiude 12 gradini con copertura di lastroni degradanti. 





L’atrio conserva gran parte del pavimento originario in grosse lastre di calcare.
La struttura di base è costruita con blocchi di maggiori dimensioni e segna il livello di massimo pieno dell’acqua, superato il quale, questa fuoriesce all’aperto e defluisce verso il canalone naturale che scende verso Ovest. 


Storia degli scavi

Il tempio a pozzo fu scavato per la prima volta nel 1918 sotto la direzione di Antonio Taramelli, allora Soprintendente Archeologo della Sardegna.
Dopo lo scavo del Taramelli il monumento restò abbandonato fino al 1984, quando fu oggetto di un cantiere di restauro. In quell’occasione nella parte antistante il pozzo fu messo in luce un nuovo muro che si poggiava nell’ala destra dello stesso.
Nel 1994 furono effettuati lavori di valorizzazione dell’area durante i quali emersero nuove strutture a 50 m ad Est del pozzo: una capanna circolare, pavimentata, e il muro di un altro ambiente quadrangolare, separato dalla precedente da una zona lastricata. Lo scavo restituì reperti nuragici inquadrabili tra il Bronzo recente e quello finale.
Nel 1998 furono riprese le ricerche nell’area del precedente saggio e vennero in luce altri due vani di forma irregolare, affiancati, ma ciascuno con un proprio muro, separati da una canaletta la quale, in alcuni tratti, era coperta con lastrine rettangolari affiancate.
Nel 2000, grazie ad un progetto della Comunità Montana XXI di Villasalto, per i lavori socialmente utili, si è potuta ampliare l’area di scavo intorno al pozzo. Il ritrovamento di una moneta imperiale romana del III se. d.C. e di un unguentario testimoniano l’utilizzo dell’area come luogo di culto anche in età storica.
Nel 2003 furono attuati altri lavori di scavo stratigrafico finalizzati al restauro del pozzo. A Nord dell’ala destra del pozzo si è messo in luce lo strato di età storica sottostante agli strati parzialmente scavati dal Taramelli e da Ugas. Questo lastricato si appoggia al muro del pozzo e quindi è ad esso successivo. 

Interpretazione della sequenza stratigrafica condotta

In base alla sequenza stratigrafica finora condotta, si possono ricostruire le fasi di vita del tempio a pozzo partendo dallo strato più antico di frequentazione scavato, che ha restituito reperti databili tra il Bronzo medio e quello recente; esso poggiava su uno strato di argilla impermeabile, probabilmente sistemata dai nuragici durante la costruzione del pozzo, la cui fase iniziale risale quindi tra la fase finale del bronzo medio e quella iniziale del bronzo recente.



In una fase successiva furono costruiti due muri che avevano la funzione di delimitare due vani, uno più vicino all’area sacra, denominato vano α, e uno più esterno, denominato vano β. Nel primo vano fu scavata una buca con l’intento di creare un focolare, come dimostrano i resti di terra bruciata rinvenuti in uno strato di terra che, a sua volta, fu tagliato per deporre un’olla, coperta da una lastra di pietra, contenente dei bronzi da rifondere, tra i quali si evidenziano soprattutto frammenti di spade votive e di lingotti del tipo oxhide. Un altro frammento di spada votiva, trasformato in pugnaletto, fu ritrovato nella muratura dello stesso vano.
Molto probabilmente il pozzo era adornato di spade votive, le quali, in caso di rottura, venivano unite agli altri oggetti rotti e agli scarti da rifondere e, insieme ad essi, conservate sotto la protezione della divinità all’interno del recinto del tempio.
Non si sa se i successivi frequentatori del tempio fossero a conoscenza della riserva bronzea collocata sotto il pavimento e, in caso di risposta affermativa, il motivo per il quale non la utilizzarono per realizzare altri manufatti. L’unica certezza è che avevano comunque a disposizione altri ex voto di bronzo, come dimostra il ritrovamento del piede di una statuina.
In un certo momento il vano β fu obliterato da un muro e trasformato in fonderia, come dimostra un frammento di corno di bronzetto rinvenuto in  uno strato di bruciato, mentre il vano α fu pavimentato.



A circa 50 m ad est del pozzo furono edificate alcune capanne poggianti sul piano roccioso, una di esse, conservata solo per metà di forma circolare, presenta una pavimentazione ottenuta riciclando anche due macine. Accanto ad essa furono costruiti altri due vani, in uno dei quali è presente un focolare centrale e conservava ancora una fusaiola integra. L’area in questione fu pavimentata con grossi lastroni di scisto poggianti sulla roccia.
A monte del leggero declivio sul quale furono edificate le capanne fu scavata una buca sulla roccia, riempita di terra e resti ceramici nel Bronzo finale, probabilmente in funzione di riserva d’acqua, dalla quale si dipartivano alcune canalette. 



Il vano α, dopo essere stato ripulito, fu utilizzato, in età romano repubblicana, come magazzino e furono deposte delle anfore poi distrutte forse da un disastro naturale a cui si pose rimedio quasi subito con un intervento di restauro. Tra i ritrovamenti relativi a questo periodo si evidenziano alcune monete d’argento (un Quinario e un Denario) di età repubblicana (211 a.C.).
Il sito fu frequentato anche in periodo romano imperiale, durante il quale furono realizzate alcune sepolture documentate dal ritrovamento di un unguentario databile fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. e di una moneta di bronzo, un Antoniniano di Tetrico I, datato al 270-273 d.C.


Fabrizio e Giovanna



Riferimenti bibliografici:
Maria Rosaria Manunza (a cura di), Funtana Coberta, tempio nuragico a Ballao nel Gerrei
Maria Rosaria Manunza, La stratigrafia del vano α di Funtana Coberta (Ballao - CA)

martedì 2 giugno 2020

Carestie, epidemie e congiure in Sardegna nel primo ventennio del 1800


Gli eventi che si delinearono all’inizio del 1800 in Sardegna si rivelarono in seguito determinanti per quei risvolti che portarono poi alla fatidica decisione di richiedere la fusione perfetta con la terraferma che si realizzò nel 1848.

Il 3 giugno 1802 Carlo Emanuele IV abdicò a favore del fratello, il duca d’Aosta, con il nome di Vittorio Emanuele I che, in seguito ad una nuova invasione dell’Italia settentrionale da parte dei francesi dopo lo scoppio di un’altra guerra tra la stessa e l’Inghilterra (alla quale i Savoia erano alleati), nel 1806, fu costretto nuovamente a cercare rifugio in Sardegna su una nave russa seguito dalla sua corte.

La presenza della corte, come in passato, non contribuì a migliorare il costume pubblico, mentre la situazione interna si faceva sempre più preoccupante nella zona centro-orientale dell’isola, dove si giunse addirittura ad una piccola guerra tra Fonni da una parte, e Villagrande e Villanova Strisaili dall’altra per questioni di pascolo e vi furono disordini particolarmente gravi anche a Tortolì. In seguito a questi disordini furono costituite due colonne volanti, una per la parte meridionale e l’altra per quella settentrionale dell’Isola, composte da militari e da magistrati con il potere di giudicare sommariamente, l’unico limite ai loro poteri era determinato dall’impossibilità di eseguire le condanne a morte senza l’approvazione del re.


Ad aggravare la situazione contribuirono anche le terribili carestie che flagellarono l’Isola dal 1802 al 1821, la più clamorosa fu quella del 1812 alla quale si deve il famoso detto “su famini de s’annu dóxi” (la fame dell’anno dodici) ancora oggi utilizzato. Nel 1811 contribuirono ad aggravare le due annate povere precedenti la mancanza di piogge ad aprile e un caldo eccessivo a maggio, nel frattempo infieriva un’epidemia di vaiolo e la mancanza di soldi rendeva difficile l’approvvigionamento dall’estero. Per far fronte a questi problemi furono adottate varie misure di emergenza, come obbligare gli agricoltori a denunciare la quantità di grano raccolta in eccesso rispetto ai bisogni delle famiglie ed ulteriori prelevamenti di fondi da varie amministrazioni particolari, come i Monti di soccorso e di riscatto. Si ricorse anche alla requisizione nelle campagne del grano necessario all’approvvigionamento delle città, dove veniva venduto a prezzo politico. Era perciò vietata l’esportazione del prodotto dalle città all’interno dell’isola, dove alla fine dell’anno il prezzo salì in maniera esorbitante. Chi non aveva soldi doveva dare per uno starello di grano (50 lt circa) uno starello di terra coltivabile (4000 m2). La conseguenza più immediata fu ovviamente l’aumento della delinquenza e l’emigrazione a Cagliari dei poveri che nei paesi non riuscivano a sopravvivere. Fu allestito un centro di raccolta per i profughi nel convento di San Lucifero, ma il grano a disposizione era insufficiente a garantire una regolare erogazione di cibo fino al raccolto successivo. Una commissione composta dai tre grossi commercianti Gaetano Pollini, Giacomo Ignazio Federici e Salatore Rossi fu incaricata di predisporre l’importazione di grano, ma la mancanza di soldi non permetteva loro di compiere questa operazione. Solo quando Vittorio Emanuele I promise di far fronte alla spesa impegnando il sussidio che per il mantenimento della famiglia reale gli era stato concesso a carico della sua cassa privata dal re d’Inghilterra, sussidio che gli veniva pagato a Malta, il Rossi poté raggiungere l’isola e acquistare 730 salme di grano e 200 barili di farina americana.

Malgrado le rigorose misure paventate ai produttori, il prezzo del grano si mantenne molto alto anche dopo il modesto raccolto del 1812 e le conseguenze furono gravissime, infatti crebbe il debito pubblico dello stato, entrarono in crisi le amministrazioni frumentarie dei municipi e aumentò l’indigenza degli agricoltori a vantaggio dei grandi proprietari che, essendo perlopiù preti e notabili, erano esentati dal pagamento dei tributi dei quali si avvantaggiavano i monti frumentari che si assottigliarono sempre di più provocando la decadenza dell’agricoltura stessa.


Il 1800 inaugurò anche una stagione di insurrezioni e congiure che provocarono un inasprimento delle misure restrittive da parte dei regnanti. Le prime avvisaglie furono le insurrezioni antifeudali del 1800 scoppiate a Thiesi e Santu Lussurgiu, seguite, nel 1802, dal tentato moto repubblicano da parte del Cilocco e Sanna Corda, rientrati in Sardegna dalla Corsica dove erano emigrati per radunare gli antichi seguaci dell’Angioj.

Nell’ottobre del 1812 nel capoluogo sardo fu organizzata una congiura borghese, nota come la “Congiura di Palabanda” dal nome della zona stampacina da dove partì (tra l’attuale orto botanico e il convento di Sant’Ignazio). Le origini della congiura si fanno risalire alle tendenze progressiste maturate durante i moti del 1794, allora il partito progressista lottava unito contro il nemico comune, ma ben presto si divise principalmente in due grandi aree, una decise di abbracciare ideali più moderati se non addirittura reazionari, più per convenienza che per reale senso di redenzione, mentre l’altra cercò di portare avanti quegli ideali che erano stati alla base del cosiddetto vespro sardo cercando collegamenti col movimento antifeudale. Come abbiamo visto, i vari congiurati subirono feroci repressioni e chi riuscì a sfuggire alla giustizia dovette riparare o in Corsica o in Francia in attesa che i tempi fossero maturi per una nuova era rivoluzionaria. In ogni caso vi era un viscerale desiderio di redenzione da quel governo esoso e inetto e le ambizioni democratiche non erano state debellate, ma aspettavano solo il momento propizio per potersi manifestare.  














Abbiamo avuto modo di osservare che fin dall’inizio del 1800 vi furono vari tentativi insurrezionali e questo dimostra il generale stato di insofferenza diffuso un po’ in tutta l’Isola e i sospetti di congiure erano sempre più reali. Nel 1812 la popolazione era esasperata dalla carestia che ormai assumeva i connotati di una piaga e i tempi potevano sembrare maturi per un riscatto che mettesse d’accordo un po’ tutti.

Sicuramente i congiurati di Palabanda pensarono questo quando decisero di attuare il loro piano progettato nell’abitazione dell’avvocato Salvatore Cadeddu, segretario dell’Università e tesoriere del Comune di Cagliari, uno dei noti “patrioti novatori” del periodo rivoluzionario, dove si riuniva un eterogeneo gruppo composto da studenti, popolani e piccoli artigiani. Non è chiaro se lo scopo della congiura fosse quello di cacciare nuovamente i piemontesi o porre sul trono Carlo Felice al posto di Vittorio Emanuele I, gli storici in tal senso non hanno ancora avuto riscontri che convalidassero l’una o l’altra teoria; in ogni caso il piano prevedeva che fra il 30 e il 31 ottobre i congiurati di Stampace varcassero la porta di S. Agostino, lasciata aperta da amici complici, per unirsi ai congiurati della Marina con i quali, grazie alla complicità di due sergenti e di altri militari, si sarebbero impadroniti delle armi della Real Marina, successivamente, dopo essersi uniti ai congiurati del quartiere di Villanova, avrebbero assediato il quartiere di Castello, dove risiedevano le autorità.




Nonostante il piano fosse ben combinato non fu possibile portarlo avanti perché uno dei congiurati, Girolamo Boi, raccomandò il suo amico Proto Meloni, sostituto dell’avvocato fiscale regio, di mettersi in salvo finché fosse in tempo. Quest’ultimo invece parlò della faccenda al suo capo, Raimondo Garau, il quale riferì la notizia al re che, a sua volta avvisò il comandante della piazza Giacomo Pes di Villamarina. Il comandante, nonostante non avesse ravvisato il pericolo di una congiura, intensificò la vigilanza, la quale sorprese di notte uno dei congiurati, Giacomo Floris, incaricato di collegare nella piazza del Carmine i congiurati di Stampace e quelli di Villanova, ma lo lasciò libero e gli offrì la possibilità di dare l’allarme ai complici.  Il Floris  ritornò nella piazza mandando nel panico tutti quanti e, dopo aver scartato la possibilità di portare avanti la congiura uccidendo il Villamarina sguarnito di speciali precauzioni all’alba del giorno seguente, decisero di abbandonare l’impresa.

Il governo si rese conto in ritardo della congiura e, per soffocare qualsiasi tentativo simile, promise l’impunità e premi in denaro a quanti avessero consentito la cattura dei capi; i congiurati furono così perseguitati e lo stesso capo della congiura fu giustiziato.

La congiura di Palabanda può essere considerata l’ultimo atto dei moti di fine Settecento che, purtroppo ebbero come conseguenza una recrudescenza delle azioni repressive da parte del governo piemontese.

 

Fabrizio e Giovanna

 

Riferimenti bibliografici:

Leopoldo Ortu, Storia della Sardegna dal Medioevo all’Età contemporanea

Lorenzo del Piano, Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento

lunedì 18 maggio 2020

Abadia di Ognissanti in Brasile


 

Questo è il parere autorevole della prof.essa Patrizia Licini:

-Non è vero che la Carta Cantino è del 1502. Non c'è alcuna data, né nome di autore. Al contrario, Vespucci dichiara in Cosmographiae introductio ('Navigatio Quarta') pubblicata il 25 aprile 1507 a Saint-Dié, che, dopo la defezione del loro capitano generale di cui mai fa il nome il 18 agosto 1503 davanti all'isola disabitata a quasi 3° lat. Sud dove la nave capitana, la sua, era naufragata fra gli scogli, lui e i Portoghesi superstiti con lui deliberarono di riprendere la navigazione verso il Polo Antartico e dopo 17 giorni raggiunsero un porto al quale diedero il nome Abbazia di Tutti i Santi; dunque era il 5 settembre 1503 nel secondo viaggio del 1503-1504 per Emanuele il Re di Portogallo. E, infatti, troviamo la iscrizione «Abaia de todos sanctos» anche sulla Carta Cantino e ... proprio dove una mano anonima incollò la pezza di pergamena sopra il disegno originale. Dunque la Carta Cantino registra anche il toponimo del viaggio 1503-1504 e non può essere databile entro la fine del 1502. –

(Si parla di Abbazia; luogo di culto.)


Siamo a Roma nel 1507.  Johann Ruysch è un altro autore che riporta Abatia.


Ho evidenziato la scritta Mundus Novus riportata dal Ruysch e quella riportata nella carta di Pesaro. Io seguito a vedere la sigla  AV di Amerigo Vespucci.  

Cercherò di spiegare, il resto, a modo mio.

La prima stampa della Lettera al Soderini, in italiano, fu fatta a Firenze nel 1505/6. Andò persa. Noi ne conosciamo, solo, la versione latina data alle stampe dal Waldseemuller a Saint-Dié nel 1507.

Ripeto: si parla di un luogo di culto =

abbadia o abadia) s. f. [lat. tardo abbatīa]. - (eccles.) [comunità monastica e anche il complesso degli edifici che la accolgono] ≈ abbazia, chiostro, convento, monastero.

Il IV viaggio di Vespucci terminò il 18 giugno 1504 secondo la tipografia di Saint Diè.

Vesconte Maggiolo, nel planisfero di Fano, quello fatto a Genova nel 1 5 4, addì 8 giugno, riporta abaida de tuty li santi (abaida per abadia).

KUNSTMANN II:  A baia de tutti santi  mentre  CAVERI riporta   Baie di tuti li santi.

La Badia varrebbe per le suore con la Badessa. L’Abadia varrebbe per frati dove dirige un Abate e, a Firenze, ai tempi dei Vespucci, c’erano i Francescani. Quindi la Abadia di Ognissanti dovrebbe essere il termine giusto originario.  Evito di parlare della chiesa di Ognissanti e dei legami con la famiglia Vespucci. Questa volta vale la pena di leggere quanto troviamo in rete. La carta Cantino riporta Abaia de todos sanctos. La grafia nella zona del rattoppo è completamente diversa dal resto della carta. Amerigo, che se l’è vista brutta in quell’occasione, la dedicò alla Abadia di Ognissanti.  

Vallo  a tradurre in latino prima e in spagnolo dopo. E vai a spiegarlo ai Brasiliani oggi e al Santos di Pelè.

Ultimamente ho cercato, nei dispacci estensi,  con poca fortuna, i testi completi  riguardanti Alberto Cantino. Lo troviamo a Orano il 7giugno del 1501, poi è a Cadice il 19 luglio dove da notizie della flotta di Cabral. Sicuramente erano passate le due navi segnalate da Amerigo, nella Lettera da Capo Verde, riportanti la scoperta dell’Isola della Vera Croce. La scoperta di quell’isola, però, era da un anno nella Carta di Juan de la Cosa che è del 1500.

In mancanza del testo completo delle lettere mi debbo fermare.

Una cosa è sicura: la Carta Cantino è un dono. La carta che ha lasciato a Genova ha un giro di soldi.

 Majollo (che era a Genova) ne da notizia prima della stampa di Firenze. Deve averlo saputo subito.


Abaida detuty liSanty  (credo che volesse scrivere Abadia)

Questo è lo schema di Juan de La Cosa (1500)  Ho evidenziato l’isola scoperta per il Portogallo che, poi, diverrà l’isola della Santa Croce: il Brasile. Troppo precoce la segnalazione.

Però la toponomastica dei grandi navigatori è finita sulle coste dell’India… leggermente fuori scala.


Nicolò Caveri, per raffigurare l’Isola della Vera Croce, poi Santa Croce, ha utilizzato 3 pezzi dell’isola della Croce del Sud: l’Australia.


Resta da capire il perché del rattoppo sulla Cantino e della toponomastica aggiunta. 

Fatemi spiegare il mio punto di vista sulla questione delle terre asiatiche.

Ho preso un planisfero moderno e ho inserito la zona caraibica di Cantino.

Le due linee bianche sono la Raya e il suo antemeridiano noto come Linea delle Spezie. Osservate le isole del Giappone. Okkaidò è stata spostata per formare il Cubitus (gomito) di Cuba. Kiùshù è sulla Raya. Se cercate qualcosa, in America, che posso aver ispirato i vecchi cartografi non la trovate. Sono spostate di 180° esatti.

Osservate la grandezza di Giovanna (Isabella) e Spagnola della Cantino e dell’Atlante Castiglioni;

le ho portate alla stessa scala. Se un grande Ammiraglio scrisse .. (le sue lettere rarissime a STAMPA sono sotto gli occhi di tutti)….

….l'isola Giovanna, secondo il quale cammino posso dire che questa isola è maggiore d'Inghilterra e Scozia unite, perchè oltre queste centosette leghe mi resta dalla parte di ponente due Provincie alle quali io non pervenni. L'una di queste chiaman Avan, ove nasce la gente con la coda…..  (1 lega = 4 miglia)

…. L'altra isola Spagnuola, misura in circuito più di tutta la Spagna…. ( e si trova a XXVI° sopra l’Equatore)

Chi ha scritto quelle lettere (per Colombo) aveva davanti agli occhi una carta simile alla Cantino. Quelle carte già erano già state assemblate. Se Colombo avesse fatto una sola misura…

C’è un altro passaggio nelle lettere:

Quando io - venendo dalla Spagna alle Indie - giunsi a 400 miglia a ovest delle Azzorre avvertii un gran mutamento sia nel cielo sia nelle stelle, come pure nella temperatura del­l'aria e nelle acque del mare. E a questo fenomeno feci molta attenzione. Osser­vai che da nord a sud, oltrepassata la distanza di 400 miglia dalle suddette isole, l'ago della bussola che fino a quel punto tende a nord-est, si orienta d'im­provviso a nord-ovest una quarta di vento tutta intera. E ciò si verifica mentre ci si avvicina a tale linea, come chi stesse superando un pendio.

Trovai pure il mare completamente pieno di un'erba fatta di rametti di pino e carica di frutti simili a quelli del lentisco. L'erba era così densa che nel mio primo viaggio temetti che si trattasse di una secca e che le navi vi si sarebbero arenate. E il fatto sorpren­dente è che fino al momento di arrivare a quella linea della stessa erba non se ne trova affatto….

La storia del Mar dei Sargassi non mi ha mai convinto.

Ho ripreso una mia vecchia carta. C’è il meridiano di Roma e dove avevo misurato 90° a est e 90° a ovest che è, poi, quello che riportano le carte. Questa volta ho misurato 45° a est e 45° a ovest di Roma. (Ho rivisto tutti i vecchi portolani). Adesso sono convinto che quell’erba non era altro che un vecchio disegno della cornice di qualche antica carta. Nessun navigatore ha trovato, più, quell’erba.

(Augusto  mandò Gaio Cestio Gallo nel Mar Rosso, verso Aden, con al seguito un certo Strabone. Siamo a 45° a est di Roma.)

Affermare che Cantino fu spedito a Lisbona per carpire lo sviluppo dell’impero portoghese, che era solo sulla carta, mi sembra poco veritiero.

 

 

Rolando Berretta